

Abbiamo spesso un’idea errata delle relazioni. Ci viene insegnato che l’amore è la fusione quasi totale con l’altro.
Ci aspettiamo che una coppia di innamorati viva nella stessa casa, mangi insieme tutte le sere, abbiano pensieri sessuali solo per il partner, condividano gli amici comuni e la pensino sempre in modo molto simile.
Questa è una visione molto romantica ma che ingaggia il partner in una sfida impossibile da raggiungere e che spesso sfocia in disaccordi e litigi.
Ma quali sono i 3 ingredienti che rendono una coppia felice nella vita reale?
Questi tre elementi sono più importanti di qualsiasi interesse condiviso: potete anche aver letto entrambi tutte le opere di filosofia del XX secolo o avere la passione per lo sci alpinismo ma se non vi sentite visti, accettati e capiti per quello che siete finirete sempre per sentirvi molto soli, pur essendo in due.
Il lutto é un tema che ha appassionato filosofi teologi e artisti, sviscerato in molti dei suoi aspetti, nelle vicende umane assume dei significati molto diversi: un conto è la perdita di un nonno centenario aspettata, attesa, pensate ed un conto è la morte di un genitore per un bambino molto piccolo o la morte di un figlio.
Eppure in ognuno di questi casi, cosi lontani tra loro come esperienze soggettive, possiamo intravedere un sottofondo comune, delle reazioni cognitive, emotive e comportamentali che rendono il lutto un processo biologico, identificabile al di là delle differenze culturali, antropologiche e sociali.
Il lutto è un processo con delle radici evoluzionistiche: K. Lorentz descrive il comportamento di un’ochetta che ha appena perso il suo compagno come un comportamento identico a quello umano nel momento di una perdita.
Cambiano i rituali, i modi in cui il dolore può essere manifestato in termini di durata ed esibizione, ma la perdita di una persona amata suscita un profondo disagio negli esseri umani: a qualsiasi latitudine non esiste civiltà umana che non abbia sottolineato con un rituale collettivo il passaggio dalla vita alla morte, la ricerca di significato della morte e del senso della vita.
Fin dal paleolitico la pratica di sepoltura dei morti testimonia la risposta sociale al tema della perdita: Si tratta di una tappa fondamentale caratterizzata dall’adozione di un segno, unico ed eterno da contrappore all’evento ineluttabile della scomparsa.
La memoria è la soluzione psicologica all’interruzione dell’esistenza e al senso di incompiutezza della vita.
L’uomo è un animale sociale, il nostro cervello si è evoluto e ha la forma che ha nell’uomo sapiens xke predisposto alle relazioni sociali, può tenere a mente fino a 150 relazioni, e i rituali collettivi hanno una funzione importante per la psiche: permettono di contenere e organizzare, attraverso la condivisione, le emozioni intollerabili di perdita; aiutano chi resta.
La presenza di un compagno/ accompagnatore nei processi di lutto è un fattore protettivo.
L’elaborazione del lutto è un processo collettivo e la scomparsa di questi rituali, l’avanzare di una prospettiva privata di elaborazione del lutto comporta frequentemente difficoltà psichiche ed emotive.
E se da un lato la morte è sempre più accessibile attraverso i media, dall’altro le persone hanno una sempre minore famigliarità con la morte, è quasi diventata un tabù.
Inoltre bambini e ragazzi pur non avendo subito nessuna perdita sono bombardati da immagini di morti in tv. L’esperienza non è più quella diretta ma è l’esperienza virtuale, immaginaria e reversibile e quello che passa è dunque il concetto di reversibilità della morte e non una e vera e propria rielaborazione.
Come avrete notato pur nella sua infinita tristezza proprio nel lutto sembra trovarsi la piena conferma della dimensione relazionale su cui si fonda la natura umana.
E’ proprio il lutto a sottolineare quanto l’esistenza umana sia intersoggettiva e quanto i legami significativi e importanti della nostra vita possano in fondo solo trasformarsi e mai finire nel nulla. Nemmeno con la morte.
Ma come mai la perdita di una persona amata attiva quegli intensi sentimenti di tristezza, rabbia, smarrimento?
Da un punto di vista evolutivo il cordoglio sembrerebbe inutile, infatti fisicamente animali e persone in lutto sono meno predisposti alla riproduzione, il rischio di morte raddoppia nell’anno seguente alla perdita e si è meno produttivi tanto che in alcune popolazioni dell’Uruguay
i figli degli uomini morti in guerra, vengono a loro volta uccisi, perché le loro chance di sopravvivenza sono molto poche.
In realtà il cordiglio, essendo stato mantenuto dall’evoluzione ha una funzione ben specifica: quando sperimentiamo quella profenda tristezza legata alla separazione siamo più predisposti a non separarci dagli altri membri del gruppo e la vicinanza garantisce la sopravvivenza: ovviamente non la separazione da chiunque ma da colore che sono importanti per la nostra sopravvivenza e la sopravvivenza dei nostri geni.
La perdita delle figure di riferimento significative per i cuccioli dei nostri antenati significava morte sicura mentre per i genitori significava scontrarsi con il mandato evolutivo della specie: perdere il proprio patrimonio genetico. La predita di chi condivide il nostrp patrimonio genetico o può garantirne la sopravvivenza è una perdita enorme da un punto di vista della sopravvivenza della specie.
Da un punto di vista dell’evoluzione della mente invece la perdita della figura che si prende cura di noi implica la perdita di chi ci aiuta a costruire un senso del Sé e la percezione del mondo, aspetto che ci guiderà poi nelle relazioni future.
Capirete anche voi quindi come la perdita di una figura affettiva di riferimento possa disorganizzare il senso e la percezione del proprio sé.
Quando il lutto non viene rielaborato è importante cercare un aiuto che possa aiutarci a ricostruire il senso di noi stessi nel mondo e ci restituisca una bussola attraverso cui orientarci.
Se ti riconosci in uno di questi punti o conosci qualcuno che potrebbe aver bisogno di un aiuto specialistico, non esitare a contattarci!
Puoi scriverci una mail a centrolatartaruga@gmail.com, chiamarci o contattarci sui social media Facebook e Instagram.
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“Mi sono concessa di riconoscere l’ansia solo quando ho creduto di aver scoperto la cura: scrivere storie, portarle in scena. È stata l’ansia a non farmi fermare mai”. Con questa frase Lea, la protagonista del nuovo libro di Daria Bignardi, da cui prende il titolo il nostro post, descrive come ha fatto amicizia con la propria ansia.
Ma che cos’è l’ansia? Questa famigerata e temuta sensazione che tutti cerchiamo di evitare ma che ognuno di noi ha sperimentato almeno una volta nella vita?
In primis, l’ansia NON è un’emozione. È un calderone di sensazione ed emozioni, belle e brutte che si traducono a livello somatico;
l’ansia è un campanello che ci informa che sta avvenendo un cambiamento, dentro o fuori di noi, e il nostro corpo si prepara ad affrontarlo.
Nelle situazioni di percepito “pericolo”, per esempio una situazione sociale, luogo chiuso, un incontro importante il nostro corpo si deve preparare all’azione e per questo il cuore inizia a battere più veloce, i nostri muscoli si contraggono, sentiamo l’adrenalina che ci tiene su di giri.
Quando questo meccanismo va in tilt iniziamo a percepire i segnali d’allarme senza una reale situazione stressante da affrontare e col passare del tempo impariamo ad associare i sintomi fisici alla paura.
Tachicardia, nodo alla gola, vertigini, paura di morire, sono tutti i segnali tipici che il nostro sistema d’allarme è andato in cortocirucito.
Si può fare qualcosa? Ovviamente si.
Ecco alcuni piccoli esercizi utili per poter imparare a gestire ansia e attacchi d’ansia:
1. “Non sto morendo”. Per quanto tutto il nostro corpo sia in allerta e per quanto terrorizzante non si muore per un attacco di panico. Ripeterselo come un mantra aiuta a tenerci focalizzati sul presente.
2. Visualizza l’attacco di panico come un’onda: arriva veloce ed improvviso ma se ne va altrettanto velocemente.
3. Respira: porta la tua attenzione sul respiro e rallentalo. Cerca di respirare con la pancia, sentendo l’aria che entra ed esce piano piano dai polmoni.
4. Attiva la memoria di lavoro con facili trucchetti: pensa a tutti gli animali che iniziano per , ai tutti i tuoi compagni delle elementari, ai fiori di colore rosa…. Scegli un trucchetto che per te sia facilmente accessibile.
5. Evita che si cronicizzi!! Come per qualsiasi disturbo prima lo intercetti e te ne prendi cura meglio é. Ogni attacco pregresso si immagazzina nella nostra memoria e diventa un “trigger”, un detonatore, per nuovi attacchi.
6. Rivolgiti ad uno psicologo per evitare che diventi un disturbo cronico e sia lui a controllare la tua vita!
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Giulia ha quarantadue anni e un figlio, Luca di otto anni.
Separata da quattro anni dopo un matrimonio di 10 anni, a seguito di un lungo periodo di litigi ed incomprensioni con l’ex marito.
Luca viene affidato consensualmente a lei poiché l’ex marito afferma “di avere poco tempo per seguirlo”.
Giulia ha iniziato una relazione da un anno con Antonio, a sua volta separato ma senza figli. Da un mese sono andati a vivere tutti e tre insieme. Iniziano però sin da subito i primi problemi. Luca, mette alla prova Anotnio. Il bambino ha sentimenti contrastanti: da una parte si sente spodestato dal ruolo di “maschio” della famiglia, dall’ altra pensa di dover proteggere la madre da un’ulteriore delusione. Antonio cerca prima di essere affettuoso, poi tenta di imporsi, dando anche delle regole.
Giulia inizia a sentirsi tra due fuochi: pensa di dover proteggere suo figlio, però non vuole perdere il nuovo legame che sente forte. Anche lei non sa come comportarsi, come una bilancia si sposta da una parte all’altra. Nel corso del tempo la nuova famiglia inizia a ricostituire confini, regole e routines e piano piano Luca impara a fidarsi di Antonio che diventa un nuovo punto di riferimento, un consigliere ed un amico.
Sono una nuova famiglia, che si trova ad affrontare i cambiamenti legati alla rottura e alla ricostruzione di nuovi legami.
Possiamo capire quanta flessibilità e capacità di adattamento devono avere tutti i componenti di questi nuclei familiari e quanto, nonostante il cambiamento culturale stia iniziando a dare i propri frutti, il cambiamento emotivo legato al concetto di famiglia allargata non è ancora stato interiorizzato.
Spesso la difficoltà che incontrano queste famiglie è quella di dover ricostruire una storia e una propria narrativa comune, integrando le relazioni passate. Il legame con la famiglia precedente non si rompe e ci si trova a fare i conti con gli intoppi legati all’integrazione delle famiglie d’origine siano essi nonni, zii, fratelli o cugini.
Ogni nuova famiglia trova le proprie strategie e ha il proprio tempo per affrontare queste nuove sfide e in molti casi la ricostruzione porta in sé importanti risorse relazionali.
Quando questo non avviene, a causa di grossi conflitti o a dinamiche relazionali invischiate è bene rivolgersi ad un professionista.
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A cosa serve il sesso? Da un punto di vista evoluzionistico il sesso serve a creare diversità. I maschi in una vita potrebbero mettere al mondo centinaia di figli, mentre le femmine no. I maschi dunque “vincono” da un punto di vista evolutivo se fanno sesso con tutte, mentre le femmine solo con quello giusto.
Ma se uomini e donne investono diversamente nella sessualità, in entrambi il sesso è strettamente correlato al circuito del piacere.
Fare sesso, infatti, in termini evolutivi è estremamente faticoso e se non fosse attivato il circuito del piacere, uno dei meccanismi cerebrali più antichi, l’Homo sapiens e molte altre specie animali sarebbero estinte da secoli da secoli; infatti anche altre specie ricercano attraverso il sesso piacere e godimento: orsi e pipistrelli praticano sesso orale, gli orango tango femmina creano dei dildi anatomici con rami e fogli per masturbarsi e i topini cantano mentre fanno sesso.
Ma se condividiamo con il mondo animale moltissimi aspetti, la sessualità umana si è evoluta in un sistema molto più complesso, intriso di norme sociali e vissuti emotivi.
Nell’essere umano il sesso potrebbe infatti essere definito come un “programma biologico orientato a favorire la costituzione ed il mantenimento dei legami di coppia” (B. Bara). Il sesso, dunque, non ha solo una componente biologica, ma anche una “relazionale”, è uno dei possibili modi d’incontro con l’altro, fare conoscenza attraverso una modalità ricca e complessa che prevede l’attivazione del sistema “biologico”, “cognitivo”, “emozionale” e “comportamentale” dell’individuo.
Che il sesso abbia una forte valenza relazionale lo rivelano anche gli studi che indicano come, a qualsiasi età, le coppie che sono soddisfatte del loro rapporto hanno anche una buona vita sessuale.
Ovviamente ogni coppia è diversa, ma alcuni studi hanno rivelato che le coppie di lunga data che sono felici hanno in media 3 o 4 rapporti sessuali al mese.
E se dunque il sesso ha una valenza relazionale, cosa fare quando la sessualità va in crisi?
Se invece la crisi sessuale non si risolve mettendo in pratica questi semplici suggerimenti, allora è probabile che le cause della mancanza di desiderio siano più profonde e sia arrivato il momento di chiedere aiuto ad un esperto che possa suggerire modalità e strumenti differenti per superare le vostre difficoltà.
Tra bisogno di vicinanza ed esplorazione l’adolescenza è un periodo a volte turbolento e fonte di cambiamenti.
Quando inizia l’adolescenza?
Avere in casa un ragazzo tra i 12 e 20 anni, perché sì, ormai l’adolescenza arriva prima e finisce dopo, è un po’come stare sulle montagne russe. O come dice un collega, Alberto Pellai, è come giocare al tiro alla fune.
Lasciare fare o imporre disciplina?
I ragazzi iniziano a tirare la corda sempre di più, vogliono più libertá, meno regole, meno “rotture” e il compito del genitore sta nel sapere quando lasciar vincere e quando, invece, bisogna tenere il punto.
Se un genitore è troppo rigido rischia di impedire al figlio di esplorare il mondo e di diventare un adulto non in grado di agire nel mondo e gestirne le conseguenze.
Quello che invece non dà mai confini rischia di lasciarlo senza una base sicura, in preda alle proprie insicurezze.
Giochi da equilibrista?
Il periodo dell’adolescenza è il periodo in cui si insegna ai figli la delicata arte della negoziazione e l’arma migliore per mamma e papà è la flessibilità.
Ecco qualche consiglio per aiutare i genitori a giocare al meglio questa faticosa partita:
Se desideri approfondire o desideri participare ad un gruppo per genitori di figli adolescenti, non esitare a contattarci!
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Fine anno: tempo di oroscopi, previsioni e… buoni propositi.
Questo 2020 ha cambiato molte cose ma non le tradizioni: come ogni fine/inizio anno non possono mancare i buoni propositi.
I propositi più comuni di inizio anno sono il perdere peso, praticare più sport, smettere di fumare, sapersi organizzare meglio, essere meno stressati nell’anno nuovo.
Le statistiche tuttavia indicano che questi auspici sono raramente portati a termine.
Principalmente per 3 motivi:
E’ inutile formulare i propositi? NO! Alcuni studi indicano che i buoni propositi possano essere di grande utilità se formulati correttamente.
Ecco qualche consiglio, basato su alcuni principi cardine dei cambiamenti: scegliere le priorità, tenerle sempre in mente, essere concreti e muoversi a piccoli passi. Vediamo come:
La psicologia sostiene che ci vogliano tra i 21 e i 66 giorni, circa due mesi, quindi non dobbiamo mollare al primo scoglio; è necessario essere costanti soprattutto per il primo periodo, dopodiché verremo ampiamente ripagati.
Vi auguriamo buon inizio nuovo anno!
La Tartaruga – Centro di Psicotraumatologia ed EMDR
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IL DISTURBO DIPENDENTE DI PERSONALITÀ: QUANDO L’ALTRO DIVENTA LA RAGIONE DI VITA.
Tutti abbiamo bisogno di legami, siamo geneticamente predisposti alla ricerca di vicinanza con altri della nostra stessa specie: la nostra è una mente relazionale.
Ma cosa succede quando questa fisiologica propensione a legarci diventa una necessità pervasiva, tanto da diventare un vero e proprio disturbo?
Le persone con un Disturbo Dipendente di Personalità sono sempre alla ricerca di una figura di riferimento che li aiuti ad orientarsi nella vita quotidiana. Senza tale figura vivono nella costante paura di dover prendere decisioni, sono incapaci di iniziare o completare compiti e temono di essere rifiutati.
Spesso hanno l’idea di essere incapaci di vivere da soli e di non essere in grado di affrontare gli eventi della vita.
Si sentono smarriti, vuoti e inutili senza la presenza di una persona al loro fianco.
Richiedono frequentemente rassicurazioni e conferme e l’indipendenza dell’altro viene vista come un vero e proprio abbandono.
Pur di evitare le emozioni di paura, terrore e ansia intensa che collegano alla lontananza della persona amata, queste persone mettono in atto comportamenti, anche compulsivi, volti ad evitare l’abbandono.
Le persone con un Disturbo di Personalitá Dipendente diventano abili nel comprendere la volontà e i piaceri dell’altro, pensando che tale comportamento li renderà indispensabili e dunque le proteggerà da possibili allontanamenti.
Senza una relazione stabile, cosa che raramente accade in quanto le persone dipendenti passano da una relazione all’altra pur di non sperimentare il vuoto terrifico della solitudine, hanno la sensazione di essere “nulla in mezzo al nulla” e privati di qualsiasi scopo. Le relazioni sono, dunque, il faro che guida le scelte personali.
Avete presente quella sensazione di fare o esserci continuamente per l’altro senza però mai essere sufficientemente ricambiati? Queste persone la vivono costantemente, con conseguenti esplosioni di rabbia e senso di costrizione: sono scissi tra il bisogno di non contrariare la figura di riferimento e rispondere alle proprie necessità.
Spesso, inoltre, nella vita personale vengono sacrificate tutte le altre relazioni sociali, mentre a livello lavorativo non ci sono confini tra vita privata e professionale.
Tutto passa in secondo piano rispetto al partner.
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Approfondiamo il tema dei soggetti maltrattanti, perché solo analizzando l’altro lato della medaglia possiamo risolvere il problema della violenza.
“Ricordo bene il punto di non ritorno: una sera durante un litigio ho spintonato mia moglie e le ho tirato uno schiaffo. Ad ogni litigata diventava sempre peggio e la mia rabbia era sempre più fuori controllo. Leggevo sui giornali di violenza e femminicidio ma non mi riguardava. Io mi pentivo di quello che avevo fatto un istante dopo, ma la volta dopo ricominciava tutto da capo”.
Queste sono le parole di Giorgio, impiegato di 50 anni che ha deciso di intraprendere un percorso per uomini che commettono violenza contro le mogli. Lo scopo dei percorsi di sostegno e riabilitazione è duplice: lavorare sul maltrattante e proteggere le vittime dal ripetersi del ciclo della violenza.
Inevitabilmente il focus è sulla vittima ma, per risolvere il problema, occorre considerare anche chi maltratta. E la prima cosa da fare è cambiare il nostro atteggiamento, farci coraggio e non etichettarli come mostri (pensiamoci bene: quanto è comodo allontanare dall’immagine che abbiamo di noi stessi un soggetto deviante?).
Spesso le persone che commettono violenza hanno a loro volta vissuto infanzie non protette: trascuratezza, negligenza, violenza assistita sono tra gli eventi di vita avversi che possono modificare a livello biologico, comportamentale e relazionale un essere umano.
Tali mancanze nelle relazioni primarie sono decisive nel determinare problemi di regolazione emotiva, comportamenti compulsivi, incapacità di comprendere gli altri.
I Maltrattanti hanno difficoltà nel:
La violenza domestica ha una serie di conseguenze fisiche, emotive, psicologiche e economiche a breve e a lungo termine. Gli effetti possono essere diversi:
· Effetti fisici
· Effetti sulla salute mentale
· Effetti psicologici
· Essere costretta a stare in silenzio
· Impatto sulla fiducia in se stesse
· Isolamento sociale
· Effetti sulle donne come madri
Fermare il ciclo della violenza aiuta a restituire al maltrattante la consapevolezza del danno che hanno generato alle vittime e rendersi conto di quelle che sono le loro vulnerabilità.
L’abuso distrugge la fiducia e l’amore.
Se pensi di aver subito dei maltrattamenti dal tuo partner chiedere aiuto ti permette di proteggere te stessa e/o i tuoi bambini.
Se sei un uomo e pensi di mettere in atto comportamenti maltrattanti, un percorso di trattamento é una grande opportunità per capire e cambiare il tuo comportamento e rispondere diversamente quando ti arrabbi o senti altre emozioni difficili. Questo ti darà più opportunità nelle tue relazioni future.
Se hai un figlio hai un ulteriore incentivo ad uscire il ciclo della violenza. Puoi iniziare così a relazionarti in modo migliore con il tuo bambino.
Attraverso l’integrazione di percorsi specifici e trattamento EMDR è possibile uscire dal ciclo della violenza.
Lo diciamo sia ai soggetti passivi che a quelli attivi del maltrattamento: come spesso accade nella vita, molte situazioni arrivano gradatamente al loro estremo. Prendere coscienza di un gesto e parlarne con uno specialista può essere la migliore strategia di prevenzione e trasformarsi un percorso di crescita personale.
Chiedi maggiori info a La Tartaruga- Centro di Psicotraumatologia e terapia EMDR.
centrolatartaruga@gmail.com